Tutte le false argomentazioni di chi sostiene la necessità di alzare i limiti per l’accesso alla pensione, smentite da fonti autorevoli, citate in uno speciale de Il Fatto Quotidiano
Il 21 luglio scorso è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano uno speciale Focus Pensioni, a cura di Nicola Borzi, che contribuisce a confutare tanti, troppi luoghi comuni sui cittadini ed i lavoratori italiani. Lo speciale, ricco di dati e di citazioni di fonti autorevoli, smentisce le false affermazioni, troppo spesso espresse da politici, economisti e giornalisti, che il cittadino/lavoratore italiano lavori meno dei suoi omologhi europei, vada in pensione prima e “si goda la vita” attingendo a più non posso dal welfare statale, mentre i lavoratori del resto d’Europa sarebbero più “morigerati” e non avrebbero alle spalle uno Stato sociale “generoso” come il nostro.
In Italia si riceve “più welfare” che nel resto d’Europa?
Secondo gli ultimi dati Eurostat comparabili (2017), nella UE ogni abitante riceveva, al 2017, in media 8.070 euro in prestazioni sociali. Passando però dalla media ai singoli stati, si scopre che, mentre il singolo cittadino italiano riceveva 8.041 euro, il welfare pro-capite era di 20.514 euro in Lussemburgo, 15.616 in Danimarca, più di 13.000 euro in Svezia, più di 12.000 euro in Olanda, Austria e Finlandia. Quindi non è vero che il cittadino italiano riceve più prestazioni sociali rispetto ai cittadini delle altre nazioni.
Se poi si confronta la spesa per il welfare con il PIL, si può osservare come la spesa in Italia sia al di poco di sopra della media europea (28% del PIL in Italia, contro il 26,8% nella UE), mentre ad esempio in Francia si spende in prestazioni sociali il 31,7% del PIL. Superano l’Italia anche Danimarca, Finlandia, Austria e Svezia.
Quindi ci sono diversi stati che, rispetto al nostro, spendono in welfare una quota sensibilmente più alta del proprio PIL.
Gli italiani vanno in pensione prima degli altri cittadini europei?
Secondo i dati Ocse del 2019, quando scadrà la Quota 100 (2021) e quindi l’età per l’accesso alla pensione salirà denitivamente a 67 anni, l’età pensionabile in Italia sarà al di sopra della media dei paesi Ocse (66 anni), non solo rispetto ai dati attuali, ma addirittura tenendo anche conto delle riforme già messe in cantiere nei vari Paesi per innalzare l’età.
L’Italia si posizionerà quindi al secondo posto fra i paesi al mondo in cui si andrà in pensione più tardi!
Il nostro Paese sarà secondo solo alla Danimarca, dove l’età attuale è 65 anni ma è già previsto un innalzamento progressivono a 74.
Di tutti i primati ai quali potremmo aspirare, questo mi sembra davvero il più triste…
Gli italiani lavorano meno degli altri cittadini europei?
Anche il “peso” del lavoro non è lo stesso: oggi l’italiano lavora in media 1.718 ore l’anno, contro le 1.380 della Danimarca, le 1.434 dell’Olanda, le 1.452 della Svezia, le
1.501 dell’Austria e le 1540 della Finlandia.
Quindi non solo gli italiani dovranno rimanere al lavoro per un periodo più lungo di quello degli altri cittadini europei, ma in più ogni anno dedicheranno al lavoro un numero di ore maggiore rispetto agli altri della UE.
Conclusioni: le condizioni dei lavoratori italiani, le condizioni dei lavoratori più disagiati, come macchinisti, capitreno e manovratori delle ferrovie
L’ottimo lavoro svolto da Nicola Borzi su Il Fatto Quotidiano, fornisce molti elementi per confutare le teorie di tutti coloro, politici imprenditori economisti e giornalisti filo-imprenditoriali, che stanno in tutti i modi affermando che gli italiani sono ancora dei “privilegiati”, difendendo le (contro-) riforme che hanno innalzato l’età di accesso alla pensione e anzi sostenendo che sia necessario intervenire ulteriormente, perché ancora non basta.
I numeri parlano chiaro: oggi i cittadini/lavoratori italiani sono, da punto di vista del lavoro e del sistema pensionistico, tartassati come, e in molti casi anche di più, dei cittadini del resto d’Europa.
Anche per queste ragioni sostengo che sia indispensabile che le condizioni per poter accedere alla pensione siano riportate a livelli accettabili; in particolare ritengo che 40 anni di lavoro debbano essere considerati come requisito sufficiente per tutti: quando una persona ha lavorato per 40 anni, deve poter bastare!
C’è inoltre sempre da risolvere il problema di tutti quei lavoratori che svolgono mansioni molto disagiate e che oggi non rientrano nemmeno tra i lavoratori usuranti:
è il caso ad esempio di macchinisti, capitreno e manovratori delle ferrovie, per i quali tutte le forze politiche, a più riprese, hanno speso tante parole, ma di fatti concreti risolutivi non se ne sono visti. È inaccettabile che questi lavoratori siano costretti a lavorare no a settant’anni, senza vedersi riconosciuto il fatto di lavorare su turni che sono i più irregolari tra quel li esistenti, notti comprese, e in più essere soggetti quotidianamente a forti rumori, vibrazioni, sbalzi di temperatura, per non parlare dei sempre più elevati carichi di responsabilità